Scrivere è questione di pratica, dedizione e voglia, ma anche di idee. Senza un’idea da scrivere, non esiste lo scrittore. Capita di avere a disposizione l’idea della vita pronta solo per essere messa in scaletta e lavorata per mesi o anni, ma ci sono anche momenti nella vita dell’appassionato di scrittura in cui mancano le idee giuste per mettersi a lavorare. Dato che si tratta di una passione che necessita di essere tenuta viva e addestrata costantemente, è consigliabile mantenere attiva la mente (e le dita) scrivendo con una certa regolarità: a tal fine torna utile produrre racconti.
Sebbene uno possa pensare che una storia breve sia più facile di un testo lungo, è paradossalmente il contrario. Un racconto esercita lo scrittore alla brevità, all’asciugatura del testo, alla rapidità di concludere e all’efficacia della prosa. Scrivere un bel racconto di 10 pagine è più difficile di un romanzo di 1000.
Per questo si tratta di un ottimo esercizio da fare e rifare mentre si è alla ricerca di idee buone per un romanzo, oppure mentre si sta lasciando decantare l’idea stessa prima di iniziare la stesura.
Vi manca lo spunto per scrivere un racconto? Ora proporrò sei idee potenziali che aspettano solo di essere messe nero su bianco. Essendo dei plot si può scegliere se scriverli al presente o al passato, in Prima Persona o in Terza, insomma si è liberi di usarli a piacimento. Io vi presento una mia ipotesi di inizio, ma possono essere stravolti da cima a fondo.
Conta solo l’idea e come portarla a termine.
#1 Il pacco misterioso
Paola è sdraiata sul pavimento del salotto e sta fissando fuori dalla finestra aperta. È l’ennesima giornata di noia, l’ennesimo giorno in cui aspetta solo che si faccia sera. Intanto osserva le mille sfumature del cielo e si lascia cullare dal rumore mutevole della città che scorre fuori da quella che, giorno dopo giorno, è divenuta una gabbia da cui ha paura di uscire. Un suono inaspettato rompe la contemplazione: qualcuno ha suonato al campanello del suo appartamento. Scossa da quell’evento anomalo, raggiunge l’ingresso e sbircia fuori.
C’è un pacco sullo zerbino. Paola prende la misteriosa consegna e la svolge chiedendosi se forse non sarebbe il caso di buttare via tutto. In cuor suo teme di abbandonare quella deriva che ha preso la sua vita, così priva di speranza e in tal modo così rassicurante.
Dentro il pacco c’è una rivista dal nome che lei non riconosce. Mai sentita nominare. “Luoghi dell’immaginario”. È vecchia e screpolata, datata 1952. Dentro ci sono una quantità incredibile di segnalibri tutti diversi, a perline, con le piume, di carta e d’argento, di pelle e di legno. Segnano pagine che raccontano una storia frammentata e di cui non riesce a comprendere il filo temporale. Uno in particolare la colpisce, è un segnalibro con in cima una castagna stilizzata: segna il bel mezzo della rivista, dove c’è una mappa di una città sconosciuta con una X vergata di rosso al centro. In basso c’è una nota maliziosa, scritta da una mano femminile. “La X è il tesoro”, legge Paola, sempre più convinta di essersi addormentata sul pavimento e di stare sognando.
Anche perché quella calligrafia è la sua.
#2 La partita
Fefé sognava di giocare in massima serie sin da quando correva nel campetto di quartiere insieme ai suoi amici. Era cresciuto nello slum di Nueva Aires, là dove si ammassavano gli umani rimasti senza lavoro a causa dell’avvento delle Fabbriche Automatiche. Aveva sempre giocato prima di testa, poi di forza. Si era fatto notare al momento giusto, aveva rifiutato incarichi danarosi ma che non avrebbero aperto per lui le porte alle leghe superiori, finché, passetto dopo passetto, aveva abbandonato la povertà dello slum e si era affacciato con coraggio allo showbiz interplanetario. Si stava per guadagnare un posto fisso fra i titolari della squadra che si contendeva il campionato superiore! Un onore che, per un gatto randagio come lui, era il coronamento di un sogno.
Solo che non aveva ancora abbastanza soldi e popolarità per ottenere delle nuove gambe cibernetiche, così doveva giocare con quel suo maledetto corpo biologicamente imperfetto. Le articolazioni ormai lise dagli allenamenti intensivi, i muscoli sfibrati dalle iniezioni di anabolizzanti. Senza gambe high tech, la sua carriera era prossima a un binario morto.
Pensava a tutto questo, Fefé, mentre stava per vendere la prossima partita in programma, uno scontro poco importante ai fini della corsa al vertice. Doveva solo sbagliare al momento opportuno. C’era chi voleva vedere la sua squadra perdere a tutti i costi, il giorno seguente. E pagavano bene.
Gli bastava solo fare quella maledetta telefonata.
#3 L’incarico
In quarant’anni di carriera, non gli era mai capitato un caso del genere. Franchino, come lo chiamavano in paese, aveva amministrato la piccola caserma come fosse casa sua. Cosa che in fondo era vero, dato che ci viveva dentro insieme a sua moglie. Non che ci fosse molto da fare al paesello suo. Quarant’anni di onorata carriera a risolvere dispute nell’unico bar del paese, a staccare qualche multa all’occasionale turista che si era perso nelle campagne ed era finito lì per sbaglio, e poco altro.
Però tutti lo rispettavano, e lui aveva dato la sua vita all’ordine e al decoro. Franchino aveva la coscienza pulita e l’animo candido di chi aveva speso la sua esistenza facendo qualcosa di buono, per quanto poco e insignificante fosse stato quel qualcosa.
Per tale ragione era particolarmente scosso dalla storia che gli avevano appena raccontato. Era sparito un bambino. Una cosa agghiacciante, drammatica e gravissima, piombata sulla sua scrivania tra capo e collo prima ancora che avesse il tempo per il caffè del mattino. Glielo aveva riferito una ragazza, Cinzia, molto giovane e figlia di un poco di buono che era in gattabuia da parecchi anni. Lei rigava dritto e stava con un caro ragazzo, Ernesto, figlio di buona famiglia. La loro relazione non era ben vista ed era fonte di svariati pettegolezzi.
Cinzia era lì davanti a lui, in lacrime che si torceva l’abito a fiori. Gli aveva appena raccontato che il suo bambino era sparito nella notte e che nessuno l’aveva più visto in paese. Una storia tremenda.
Franchino voleva chiamare la centrale regionale e chiedere una mano, quella non era una faccenda per lui e la sua caserma di campagna. Ma la ragazza lo aveva fermato prima che avesse modo di comporre il numero. Aveva insistito che fosse pericoloso dare l’allarme, perché chi aveva rapito il suo povero bambino poteva prendersela a male. Era meglio se la faccenda restava in paese.
Ma c’era un problema. Di quale bambino stava parlando?
Che lui sapesse, quella ragazza non aveva figli.
#4 Caso vuole
Alessandro sfrecciava in bici fra i passanti che affollavano il viale pedonale dei negozi, pieno centro città. Violino appeso alla schiena, cuffie collegate al lettore-cd portatile e Metallica a tutto spiano, per caricarsi prima dell’ennesima e noiosa lezione di solfeggio. Avanti e indietro, avanti e indietro, tutti i giorni: erano ormai tanti anni che studiava musica e aveva lezioni giornaliere che gli impedivano di fare tante cose che i suoi amici facevano quotidianamente, come bighellonare in sala giochi o provarci con le tipe. Non gli pesava, o almeno, non poteva permetterselo. Si trovava a metà del guado, se mollava ora aveva buttato via la sua adolescenza in lezioni inutili, se resisteva lo attendevano impegni ancora più gravosi, ma con almeno la soddisfazione di non aver dato un dispiacere ai suoi genitori.
Una ragazza… e chi aveva il tempo di trovarsela.
Meglio non pensarci, altrimenti rischiava solo di distrarsi e di suonare male a lezione.
Stava schivando dei passanti indaffarati, quando uno in particolare si gettò in strada uscendo da una gelateria. Poteva schivarlo oppure frenare. Alessandro reagì d’istinto. Lo schivò per un pelo.
Così facendo però, lo strumento che teneva in schiena colpì una fioriera, una botta che gli gelò il sangue nelle vene.
Alessandro si fermò, terrorizzato all’idea di aver distrutto il violino. I suoi si erano indebitati per comprarglielo, come avrebbe fatto a dirglielo? Era lì che si struggeva, incerto se aprire la custodia, quando una voce lo distrasse.
“Ehi, ci conosciamo?”
Una ragazza era spuntata fuori dalla stessa gelateria, subito dietro all’incauto pedone che già era svanito fra la folla. Capelli tinti d’azzurro, piumino rosso. Teneva in mano un sacchetto di carta da cui pescava dei dadini di crema fritta.
Non aveva idea di chi fosse.
“Ma sì, sei Alessandro! Sono la cugina di Carlo, giocavamo insieme da bambini quando lo andavo a trovare al mare. Vivevate nello stesso palazzo, ricordi?”
Carlo… un ragazzino ciccione che frequentava tanti anni prima, quando d’estate si trasferiva coi suoi al mare. Già, aveva una cugina… una ragazzina di cui si era preso una cottarella mai dichiarata. Com’è che si chiamava?
“Dove vai così di fretta?” esclamò lei tutta pimpante. Alessandro non fece in tempo a rispondere, che la ragazza gli parlò sopra.
“Ti piace la crema fritta?”
Alessandro si trovò un cubetto dolce e caldo ficcato in bocca, con lei che scoppiò a ridere vedendolo tanto imbarazzato.
“Stai andando di là? Dai, ti faccio compagnia.”
Si incamminarono insieme. Il povero violino era passato in secondo piano. Che strana sensazione, pensò Alessandro. Come di un momento più pesante di tutti gli altri che aveva vissuto in vita sua fino a quel momento. Una sorta di epifania.
Se avesse frenato invece che schivare il passante, cosa sarebbe successo?
#5 La sbronza dell’oca
Avevano preparato la serata nel migliore dei modi. Tre barili di idromele, cinquanta tranci di salmone macerati nella grappa e venti chili di castagne imbibite nell’alchermes. Juaron e i suoi amici avevano finito di caricare tutto quel ben di dio sulla carriola e stavano aspettando che le vedette del paese facessero loro segno di poter abbandonare l’aia in direzione del Grande Recinto. Aveva fretta di partire, ma era meglio aspettare il via libera.
C’erano due anziani sul tetto del fienile che sbirciavano l’orizzonte con un cannocchiale improvvisato. Il prete era in vetta al campanile di legno e stava sbrigando una benedizione frettolosa. Per risparmiare tempo aveva sparso l’acqua santa con un irrigatore a pompa, donando la grazia del signore all’intera vallata in una botta sola. L’oste era nascosto nella legnaia dietro la taverna e stava finendo di preparare la porchetta e il vino bollito. I giovani aspettavano trepidanti in casa, mani sulle maniglie e la testa già proiettata ai casini che desideravano combinare.
Quell’anno toccava a Juaron e i suoi l’onere di far iniziare la festa. Non potevano sbagliare.
I vecchi col cannocchiale dettero loro il via. La brigata di sfaccendati guidata dal prode Juaron affrontò lo stradello sconnesso che tagliava i campi, l’uliveto e la vigna, in direzione del Grande Recinto. Gli alcolici pesavano, e ai poco di buono che scortavano il prezioso carico prudevano le labbra dalla voglia di approfittarne. Juaron tirò di frusta e li intimò a non muovere un dito. L’alcool serviva tutto, ogni goccia… se volevano che il piano funzionasse alla perfezione, come ogni mese.
Era spuntata la luna piena. Un azzurro zuccherino ammantava le barriere del Grande Recinto, alto a tal punto da impedire la vista intorno, verso le Terre Che Nessuno Sa Dove Sono. Raggiunsero il portone, scaricarono in silenzio le derrate intrise di alcolici, spaccarono i tappi dei barili e corsero verso il paese trascinando la carriola cigolante. Si nascosero poi in una chiazza di ginepri, chini fra le fronde, a osservare.
Il tirante del portone schioccò. Le ante si aprirono lentamente. Eccoli, i guardiani. Avevano sniffato il bengodi.
Prima una, poi una caterva di oche si riversarono dentro il Grande Recinto. Di solito stavano fuori a proteggere l’unico ingresso della valle, lo difendevano dalle minacce delle terre sconosciute ma soprattutto impedivano ai paesani di scappare fuori. Erano enormi, feroci e ottuse. Al minimo chiasso serale, irrompevano in paese e costringevano gli abitanti a chiudersi nelle proprie case. E così, niente taverna, niente serate di carte con gli amici, niente litigi di coppia. Il silenzio doveva regnare sovrano all’interno del Grande Recinto, pena finir beccati a morte da quelle maledette pennute.
Tranne quando c’era la luna piena.
Era un segreto che i paesani avevano scoperto e che sfruttavano a ogni ciclo di luna. Le oche amavano inciuccarsi con la luna piena. Perché? Nessuno lo sapeva. Fatto stava che era sufficiente foraggiarle, per farle sbronzare come oche. Si riducevano talmente male, che non riprendevano i sensi per tutta la notte.
Juaron le osservò ingozzarsi di castagne affogate, di salmone infiammabile e di idromele, pregustando la festa che gli altri in paese stavano allestendo. S’immaginò mentre ficcava la testa sotto la spina dell’osteria. Ah, che serata che li aspettava, a lui e ai suoi compari.
Una vera serata da oche.
#6 Rompighiaccio
È stata una mia idea e me ne vanto pure. Gli altri non si esponevano e rischiavamo di perdere il catch. Un tavolo di sole donne senza che nessuno le avesse già tampinate? Un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Così mi sono fatto sotto e ho rotto il ghiaccio.
“Sapete che qui fuori vive un fantasma?”
È talmente stupido come starter che di solito funziona. Infatti, invece che ignorarmi, una delle ragazze ha riso e ha chiesto, “davvero?”. Missione compiuta. Mi sono seduto all’angolo del tavolo e ho spiegato che fuori dalla birreria, nel caseggiato abbandonato che un tempo ospitava una fabbrica lungo la darsena, si dice che ci sia il fantasma di un operaio caduto da un’impalcatura, e che con la sua morte abbia causato la chiusura stessa dello stabilimento. Non credono ovviamente. Neppure io. È una stronzata che mi hanno raccontato dei vecchi portuali quando facevo la stagione in banchina. Ma ha funzionato. Infatti mi lasciano parlare, poi riesco a far avvicinare gli altri.
Passiamo qualche ora a dire stronzate, a scambiarci nomi e numeri. Si beve e si scherza, finché non si fa ora di andare.
“Quindi, questo fantasma?”
Mi ero già dimenticato la storiella rompighiaccio. Invece che ritrattare, raddoppio la giocata.
“Vogliamo andare a dare un’occhiata?”
Non so come sia stato possibile, ma ci siamo trovati per davvero a percorrere la darsena verso il fondo che ancora non è stato riconvertito alla vita notturna, dove i capannoni coi tetti di Eternit cadono a pezzi fra i versi dei gabbiani e i rampicanti di rovi che hanno macinato il cemento. Grava l’odore del ferro e delle alghe. Le ragazze restano in gruppo, noi cerchiamo varchi per intortarle. Si sentono solo le nostre risate fra i macchinari arrugginiti e le pensiline abbandonate.
È notte fonda quando raggiungiamo la barriera di truciolato con cui è stato tamponato l’ingresso alla fabbrica. Attraverso i buchi nel legno sbirciamo dentro: file e file di silos gettano ombre ancora più dense della notte lunare che ci avvolge.
Ricordo di essere stato a un punto da dire, ehi, era solo una battuta per attirare la vostra attenzione!
Davvero ci avete creduto?
Avrei dovuto farlo.
Così magari sarebbe andata diversamente.
Cenni conclusivi
Vi è piaciuta qualche idea? È possibile prenderne alcune, oppure scegliere qualche stimolo interessante e cambiarle radicalmente per ottenere un racconto personale e produrre così un ottimo esercizio creativo. Non sapete da dove iniziare? Ho anche scritto qualcosa a riguardo agli schemi.
I miei amici sono gli attori, sfamano la mia creatività e la mano scrive. Alcuni esempi, Supernatural, c’era una volta, the flash, unità vittime speciali. Ai tempi della lira ho trovato su famiglia cristiana una traccia su Alice del paese delle meraviglie, e così è nata zia Caryn. Era la prima volta che scrivevo 33 pagine.