Scrivere è un mestiere molto vecchio. Sin da quando l’uomo si è reso conto che la trasmissione orale delle informazioni era fallace, ha trovato forme e simboli per imprimere sulla pietra, l’argilla, l’oro o la pergamena le nozioni che desiderava trattenere per i posteri, o più banalmente, per essere portate ovunque nel mondo. Allo stesso modo, inventare storie è un’arte molto, molto vecchia. Ben di più di ogni altra. Cos’hanno in comune queste due cose?

La scrittura permette di catturare storie, affinché siano lette da qualcun altro.

Viene naturale pensare che esistano milioni, se non miliardi di possibili storie inventate in questi millenni, e in parte è vero. Di certo si sono esplorate una quantità inconcepibile di possibilità, personaggi, caratteri e vicende, ma non appena s’indaga maggiormente, si scopre che in realtà la struttura fondante di tutte queste storie è spesso similare. Cambiano i nomi, cambiano i dettagli e gli eventi, ma il filo conduttore di una storia classica è – quasi – sempre lo stesso: quello che viene chiamato Monomito, o Viaggio dell’Eroe.

Una via autunnale di foglie

 

Non solo: c’è anche da considerare un’altra caratteristica fondamentale della cultura umana. Da sempre tramandiamo esperienze e storie rielaborando ciò che è stato detto e fatto in passato. La nostra cultura è derivativa e trasformativa. In pratica siamo di fronte a un meccanismo millenario che prende ciò che è stato detto e inventato in passato, e lo rielabora. Questo fa sì che ci sono temi, scene e concetti che si tramandano da secoli e che vengono riproposti incessantemente. In letteratura e sceneggiatura, queste “scene” o temi sono chiamati tropi narrativi.

Il Monomito, in fondo, è paragonabile a una catena di tropi: elementi ricorrenti nella tradizione narrativa umana che si susseguono in un ordine definito e che, messi insieme, rappresentano la struttura fondamentale di ogni storia e leggenda.

Vediamo perché.

Ho parlato di tropi e Monomito in questa audiolezione, se non avete tempo di leggere la guida:

La nascita del Monomito

I primi studi semiologici che hanno cercato di collegare e categorizzare come l’uomo racconta una storia risalgono alla seconda metà dell’800 ad opera dell’antropologo Edward Burnett Tylor, uno dei padri dell’antropologia moderna. Egli notò dei punti in comune ricorrenti nelle storie che narravano viaggi di eroi, un tema particolarmente caro all’epica classica. In seguito, altri presero in mano quest’osservazione e la raffinarono, finché negli anni ’50, Joseph Campbell pubblicò il suo studio seminale su quello che verrà poi chiamato Monomito. Il libro si intitola “L’eroe dai mille volti”, in cui Campbell descrive in questo modo l’elemento ricorrente di tante storie del passato e del presente:

«L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini.»

Vi dice niente?

A me sì: siamo di fronte alla sintesi estrema di una marea di storie che abbiamo letto in vita nostra.

Il viaggio dell’Eroe

Quante storie possono essere riassunte in questo modo? Lo riscrivo in modo da abbracciarne ancora di più:

Una persona che vive in un mondo conosciuto – in equilibrio – subisce un evento che rompe tale equilibrio e lo costringe ad abbandonare il mondo conosciuto per avventurarsi in esperienze nuove, affrontando sfide e conoscendo persone che lo aiuteranno e ostacoleranno lungo il viaggio attraverso il mondo sconosciuto – in disequilibrio – finché una svolta dettata dagli eventi gli donerà una consapevolezza – una forza – nuova, in grado di permettergli un ritorno verso il suo mondo conosciuto, ma in un equilibrio nuovo: il ritorno sarà gioioso o amaro, in base a ciò che sarà successo durante il viaggio.

Ciclo del viaggio dell'eroe

Vogliamo elencare qualche storia che ha usato questa progressione?

  • Il ciclo Arturiano
  • Il ciclo dei Nibelunghi
  • L’Odissea
  • La Divina Commedia
  • Il Signore degli Anelli
  • Star Wars

Eccetera, eccetera, eccetera… più riflettete su libri di narrativa che avete letto, più ne troverete. Magari la trama sarà leggermente diversa da come io l’ho posta, il viaggio potrebbe essere meramente psicologico oppure potrebbero mancare certi elementi intermedi, ma il risultato è lo stesso: un protagonista che perde uno stato di equilibrio e che deve ritrovarlo passando attraverso numerose peripezie, abbandonando la propria zona di comfort fino a una catarsi che gli permetterà di trovare la forza, l’arma segreta, la soluzione del mistero, e così via… che gli permetteranno di tornare a una ideale “casa”. La chiusura di un cerchio.

Chiariamo subito una cosa: cercando online, studiando testi di scrittura creativa e quant’altro, troverete il Monomito declinato in 12 punti, altre volte 17, c’è chi dice 21. Ogni nodo è un passaggio che in certe storie c’è, magari in altre no. Ad esempio, è spesso previsto un oggetto, c’è chi la chiama Coppa, altri Elisir, che sono simbolicamente ciò che l’eroe trova durante il viaggio – sia come obiettivo che come casualità dettata dal fato, dagli Dei, dalla fortuna o dalla sua abilità – e che sarà fondamentale per combattere l’arcinemico o per abbandonare il mondo Sconosciuto. In certi libri c’è, in altri no. Nel Signore degli Anelli, ad esempio, l’Anello stesso è tale Coppa, ma c’è da subito, non viene “trovato” durante il viaggio (se non nello Hobbit, ideale prequel). Nel ciclo Arturiano è Excalibur. In Star Wars è l’ottenimento della Forza. Insomma, dipende.

Come non è sempre uguale il numero delle figure archetipali coinvolte nel viaggio dell’Eroe. Teoricamente sono sette:

L’eroe: colui che muove la storia, il protagonista.

Il mentore: un ex-eroe, una persona saggia o maestro, un amico fraterno e fondamentale, un padre presente. È la figura che guida la partenza del viaggio e ha dato gli strumenti all’eroe (fisici e psicologici) per affrontarlo.

Il guardiano della soglia: colui che mette alla prova l’eroe creandogli difficoltà. Oltrepassarlo dona forza all’eroe stesso. Può essere un nemico, capita che una volta sconfitto diventi Alleato. Può anche essere interno, e cioè uno stato psicologico del protagonista che gli impedisce di credere in se stesso.

Il messaggero: è il motivo della partenza dell’eroe. Può essere una persona, un oggetto, un pensiero o un trauma. Si tratta dell’evento scatenante.

Il mutaforme: è colui che cambia forma e schieramento durante il viaggio. È l’amico che diventa nemico, o il contrario. Si tratta di un elemento destabilizzante per la trama e per il viaggio stesso.

L’ombra: In genere è l’antagonista. Può essere una persona oppure qualcosa di interno all’eroe, la vera sfida che esso deve battere per tornare indietro al mondo Conosciuto. Le vicende che si intersecano con l’Eroe sono il motore trainante della storia.

L’imbroglione: sebbene il nome possa trarre in inganno si tratta di una figura di aiuto per l’Eroe, è l’elemento goliardico-comico che spezza la tensione e che crea quel tipico alternarsi di momenti drammatici con altri di distensione. In altri contesti viene chiamato anche Aiutante.

Ripeto: questi personaggi potrebbero non essere tutti presenti, potrebbero essere forme psicologiche interiori di uno solo, oppure potrebbero essercene altre – faccio notare come manca, un po’ vergognosamente, un archetipo specifico per la compagna/il compagno, cioè l’amato/amata, che nella narrativa classica viene spesso associata alla causa del viaggio (con la sua morte o sparizione) ma nella narrativa più moderna ha acquisito uno spessore tale che non sempre si tratta della causa, bensì potrebbe essere considerato come un aiutante superiore, un partner che completa l’eroe (ad esempio nel videogioco Uncharted, perché ebbene sì, anche i videogiochi campano di Viaggi dell’Eroe). Quindi non va preso alla lettera che debbano esserci tutte queste figure, né che debbano essere esattamente come previsto dal Monomito.

Altro esempio, è l’Aiutante, altro archetipo minore. Potrebbero essere più d’uno (la Compagnia dell’Anello, gli Apostoli – già, c’è chi assevera i Vangeli al Monomito…) oppure potrebbe non esserci affatto.

Il Villain (l’Ombra), il “cattivo” della storia, è un altro elemento monomitico che può variare. Potrebbe essere un personaggio già presente nel mondo Conosciuto, un fratello del protagonista, un parente che prende una deriva maligna, un mentore che lo tradisce, oppure potrebbe essere una figura che domina il mondo Sconosciuto e che diventa lo scopo del viaggio: sconfiggerlo per ripristinare l’equilibrio universale.

Lo ripeto: dipende.

Una scultura raffigurante un uomo alato e una bestia alata

 

Perché insisto su questa variabilità del Monomito? È presto detto. Ci sono migliaia di guide e testi che spezzettano e analizzano il Monomito con (fin troppa) attenzione. A mio avviso non è così importante quanti e quali punti esistano, né conta il numero dei nodi del viaggio dell’Eroe che uno scrittore ha usato o intende usare. Conta il concetto generale.

Siamo umani, ed è così che raccontiamo le storie.

Se stiamo per affrontare un testo Fantasy, Sci-fi, Thriller oppure Horror, prepariamoci: anche senza volerlo, è assai probabile che intavoleremo un Monomito coi fiocchi, magari senza neppure saperlo. Questo perché siamo abituati a sentire questo genere di storie. Pensate che uno dei primi Monomiti in assoluto è la storia di Gilgamesh, leggenda Mesopotamica di quasi 5.000 anni fa. È inevitabile che la nostra cultura, volente o nolente, sia influenzata a livelli profondissimi da una quantità tale di precedenti narrativi.

Per cui, è sbagliato scrivere una storia che ricalca, in tutto o in parte, il viaggio dell’Eroe?

Indovinate cosa sto per dire…

Fuori dal Monomito

Dipende!

Non c’è nulla di male a creare una storia che resta nei binari solidi e millenari del Monomito. Dopotutto è quello che fanno la maggior parte degli scrittori e sceneggiatori. Tutta la produzione Disney è monomitica. Idem la gran parte dei Supereroi. Questo perché il Monomito è un impianto narrativo relativamente semplice, rodato – eccome se è rodato – e soprattutto vincente. Insomma, un buon viaggio dell’Eroe piace sempre, se è fatto a regola d’arte. Soddisfa lo spettatore/lettore perché è confortevole, privo di troppe novità che possono distrarre o spaventare, è consolante perché ci si può attendere come vada a finire.

Insomma, piace perché siamo abituati che ci piaccia, e questo non è un male.

Volete vendere bene? Allora partite dal Monomito, componete elementi scegliendo solo quelli su cui avete cose interessanti e più originali possibili da dire, scrivetelo bene – di solito “bene” è sinonimo di “semplice” – e avrete un best seller.

Non vedo cosa ci sia di male nel voler usare un sistema rodato da millenni per raccontare una storia che si ha in testa. Certo snobismo è deleterio. Soprattutto quando sento aspiranti scrittori insistere che non vogliono ricalcare il viaggio dell’Eroe, poi apri il loro libro… e il viaggio c’è, sotto forme che loro stessi non avevano neppure notato.

Chiariamoci subito: non è facile abbandonare il Monomito. Scrivere una storia che sia totalmente scollegata da un prototipale viaggio dell’Eroe è difficilissimo. Ci sono generi che aiutano a farcela, ad esempio il Giallo. Certi Gialli sfiorano soltanto il Monomito, ad esempio contemplando un protagonista che deve imbarcarsi in un’indagine che attraversa luoghi pericolosi, ma che lui affronta e sconfigge. Rari thriller o noir riescono a starne quasi del tutto alla larga. Ma parliamo di un numero assolutamente minoritario di opere rispetto a quelle che, volente o nolente, giocano a più riprese con il Monomito.

Nel Fantasy, poi, la questione diventa problematica. È davvero raro che i Fantasy riescano a distaccarsi totalmente da un viaggio dell’Eroe canonizzato. Ce ne sono, non nego questo. Dico solo che sono molto rari. Talmente rari che non me ne vengono in mente, ora come ora….

È quindi possibile stare fuori dal Monomito? Sì, è possibile. Ma è non è affatto facile.

Rifiutare il Monomito è una scelta radicale dello scrittore, questo perché sta scientemente rifiutando un metodo immediato, relativamente semplice e sicuro di legare a sé i lettori grazie al comfort offerto dal Monomito stesso. Certa letteratura non lineare è scevra dal Monomito, come ad esempio Casa di Foglie di Mark Danielewski. Alcune produzioni di Realismo Magico sono prive di nodi monomitici, come molti racconti di J. L. Borges. Non vorrei generalizzare – dato che in realtà amo tutto ciò che ho appena elencato – ma è consueto che questo tipo di approccio alla storia sia per palati un po’ più fini, in grado di trovarsi a loro agio anche senza il comfort offerto dal Monomito.

Quindi, è giusto voler tentare di essere originali, ma bisogna essere consci che il pubblico potrebbe non capire l’opera, potrebbe respingerla oppure potrebbe essere accolta positivamente da un numero più limitato di lettori. Sta allo scrittore decidere di voler intraprendere questa strada, lontano dal viaggio dell’Eroe.

Ora però parlerò di qualcosa che davvero tutti gli scrittori, anche quelli che rifuggono dal viaggio dell’Eroe, usano con o senza saperlo: i Tropi Narrativi.

I Tropi Narrativi

In grammatica, un tropo è fondamentalmente una figura retorica. Una metafora o un’iperbole ad esempio sono tropi: infatti, tale parola deriva dal greco trópos, “trasferito, traslato”. In pratica, parliamo di tropo quando si usa un’espressione per indicare qualcos’altro, o per allargarne il senso ad altri campi. “I suoi capelli erano fili di rubino”, è ovviamente un tropo perché i capelli non possono essere di pietra preziosa, eppure ci interessa rafforzarne la bellezza e il colore tramite, appunto, l’uso della figura retorica.

Quello che però ora interessa a noi è il tropo applicato alla narrativa e alla scrittura.

In narrativa e sceneggiatura, per Tropo si intende un elemento (azione, momento, descrizione, fatto, scena) che rimanda a qualcosa che il pubblico sa già riconoscere senza necessità di doverlo spiegare.

Il tropo è un elemento riconoscibile che è radicato nella cultura e che non necessita di spiegazioni per essere accettato, perché appunto si tratta di un espediente già usato in passato e quindi è già stato assimilato nella cultura di base.

Un conglomerato di appartamenti illuminato di notte

 

Facciamo qualche esempio pratico.

Una famiglia con il padre violento, il figlio irrequieto.

Questo è un tipico tropo famigliare. Una storia che ci propone una situazione del genere va a pescare da altre migliaia di storie già viste e raccontate, in cui un figlio cresce turbolento perché ha problemi con la figura violenta paterna. Potenzialmente, se stessimo scrivendo un romanzo che ha una premessa del genere, potremmo anche non dover specificare che il figlio è irrequieto perché ha il padre violento: il lettore/spettatore lo dà per scontato.

Una persona malvagia arreca un torto a un uomo mite. Egli diventa una scheggia impazzita.

Altro tropo. Quante storie ci sono così? Centinaia! Quando il lettore/spettatore si troverà di fronte al momento in cui avviene il torto – che è il motore della trama – si aspetterà già che il protagonista diventerà un cane rabbioso desideroso di vendetta. John Wick vi dice niente? Cane di paglia? Un giorno di ordinaria follia? 

Al termine dell’ordalia, alla fine dell’avventura, l’eroe guarda il paesaggio e riflette.

Tropo da manuale. Non serve specificare cosa stia pensando in quel momento l’eroe. Sta riflettendo sul successo, su ciò che ha perso e su cos’è cambiato nella sua vita a causa del viaggio.

Dentro un corridoio vuoto e sconosciuto, improvvisamente si iniziano a spegnere le luci.

Quanti horror usano questo espediente per generare suspence o per introdurre l’arrivo di un villain-mostro? Incalcolabili.

La missione è finita, il cattivo è morto. L’eroe è tornato alla sua vita quotidiana e sta compiendo un gesto assolutamente veniale come aprire il frigorifero per prendere il cartone del latte. Resta fermo con l’anta del frigo aperta, travolto da un pensiero improvviso. La chiude con forza e scappa fuori di casa.

Ho citato un frigorifero e del latte ma potrebbe esserci qualsiasi altra cosa: il concetto è che l’eroe si rende conto di aver dimenticato un dettaglio fondamentale durante il conflitto finale con il villain, ed esso in realtà è ancora vivo. Tipico tropo per riaprire il finale a sorpresa.

In pratica, il tropo narrativo è una scena codificata nella cultura che genera certe aspettative di risoluzione al lettore/spettatore. Vengono usati – quando si è consci – per praticità ed efficacia. Il cinema e la TV sono infarciti di tropi a livelli che nemmeno immaginate. Esistono produzioni che sono in pratica catene di tropi uno dietro l’altro. E questo perché?

  • È più facile scrivere usando espedienti rodati e vincenti
  • Lo spettatore si trova a suo agio nel comfort
  • La scena viene compresa meglio e rapidamente
  • I messaggi passano più facilmente
  • La produzione è automatizzabile.

Quest’ultimo punto è il più controverso. Sapendo usare con malizia i tropi narrativi, è possibile costruire film, serie TV e libri in maniera oserei dire meccanizzata. Quasi non serve creatività, se non quel minimo necessario a variare leggermente i tropi in questione affinché non siano smaccati.

Conoscendo bene i tropi narrativi si possono scrivere delle storie dall’inizio alla fine, restando su binari solidi e facili da immaginare e da far digerire al lettore, producendo infine un prodotto vendibile e massificato.

Mi piace molto la definizione di TV Tropes, sito enciclopedico che ha radunato negli anni tutti i tropi usati nelle produzioni cinematografiche e televisive:

I tropi sono i mezzi che chiunque ha una storia da raccontare, usa per raccontare quella storia.

Vi ricorda nulla tutto questo discorso?

Prima, quando parlavo di Monomito, ho citato l’esistenza di certi nodi (12, 17, 21… ognuno dice la sua a riguardo). Ebbene, questi nodi non sono altro che tropi narrativi.

Il Monomito è quindi una catena di tropi narrativi, talmente archetipali e generici da essere applicabili a ogni storia.

“Il mentore che educa l’eroe a trovare la via”, “il ritrovamento della coppa/elixir”, “il superamento della soglia”, sono modi un po’ misteriosi e vaghi per identificare scene e situazioni descritte in mille modi diversi in milioni di libri o film.

Una persona alla fine di un tunnel

 

Ci tengo a fare altri esempi pratici per far capire quanto i tropi siano instillati nel nostro consumo quotidiano di intrattenimento:

  • il cellulare non prende nel momento del bisogno
  • L’investigatore che ha perso il figlio e ha divorziato di conseguenza
  • L’ultima rapina prima di smettere
  • La mano che appare per afferrare il personaggio appena prima di cadere
  • I militari ottusi che non capiscono niente
  • Nel buio, una presenza alle spalle
  • Lo specchio non riflette la faccia di chi ha davanti, bensì qualcos’altro
  • La prostituta dal cuore d’oro
  • La bionda svampita e interessata al denaro/sesso
  • Il cinese nativamente malizioso, il nero nativamente aggressivo e macchiettistico

Ho voluto portare anche degli esempi borderline come questi ultimi, perché sì, anche certo razzismo e sessismo è totalmente tropizzato. Il ragazzo nero con gli occhiali, magro e simpatico che parla in modo strano e sa fare solo battute, era un tropo molto comune nelle sit-com anni ’80 che per fortuna è caduto nel dimenticatoio. Il nero grasso che fa il balletto e che non fa altro che mangiare, il cinese che sa le arti marziali senza che nessuno lo sapesse, la donna di casa annoiata che cede in tentazione. Sono tutti tropi che hanno caratterizzato certe epoche e certe produzioni, per poi radicarsi nell’immaginario collettivo.

Un po’ come la ricorrenza tipica che un personaggio afroamericano in una storia tende a morire presto, addirittura per primo. È talmente ridicolizzata come cosa da essere diventata ormai un meme.

Sarebbe interessante ragionare sui unti di contatto fra il concetto di tropo e di meme ma andrei troppo fuori tema.

Quindi, noi poveri scrittori che abbiamo in testa una storia e ci stiamo prodigando a scriverla, dovremmo conoscere i tropi, usarli o evitarli?

Una buona storia

Allora, come dicevo parlando di Monomito, dipende. Diciamoci la verità: ai tropi non si sfugge. Anche volendo sforzarsi a pesare ogni parola e ogni scena, è inevitabile che inconsciamente inseriremo nei nostri testi delle situazioni già viste, codificate e d’effetto che sul momento ci parranno dei colpi di genio, ma che in realtà si riferiscono a qualcosa di già fatto e di visto.

È impossibile non farlo.

Ma non è necessariamente un male. È anzi normale che questo succeda. Ho anticipato che la nostra cultura è derivativa e incrementale, cioè cresce nei secoli su ciò che è stato fatto in precedenza ampliandolo, arricchendolo e mutandolo in continuazione. Non è reato usare degli espedienti efficaci. Certi tropi sono forti, d’impatto e piacciono al pubblico. Se adattati alla propria storia, magari cercando di dar loro un pizzico di novità e modificandoli quel tanto che basta, è corretto usarli.

Quello che conta è la consapevolezza.

Una persona che si avvicina a una fattoria

 

Se si sta ricalcando una scena usando un tropo famoso e rodato, senza saperlo, bisogna stare attenti: il lettore si aspetta qualcosa quando gli proponiamo un tropo. Quest’aspettativa può essere da noi negata vanificando il tropo sul più bello, oppure può essere assolta come il lettore si aspetta. Ma è una scelta che appunto necessita consapevolezza.

In sceneggiatura, si dice che la negazione di un tropo è esso stesso un tropo. Quindi anche quando neghiamo lo sviluppo di una scena pensando di compiere una mossa brillante, in realtà stiamo ricalcando uno stereotipo.

Faccio un esempio pratico.

Un gruppo di amici deve dare un’occhiata in una casa appena trovata in mezzo al bosco, per decidere se è possibile accamparcisi. Uno del gruppo dice, “separiamoci”.

È uno dei tropi più abusati nell’horror, al punto che capita di trovarlo negato con ironia: uno dei personaggi grida, “sei pazzo, così finiamo per farci ammazzare come nei film”.

Se decidiamo in una nostra storia di usare una scena del genere, dove il gruppo effettivamente si separa, stiamo ricalcando un tropo. Meglio saperlo e rifletterci su!

COSA NON FARE:

  • Il gruppo si divide, non descriviamo cosa succede, tutti tornano indietro e non è successo niente di rilevante. Il lettore si aspetta qualcosa!
  • Il gruppo non si divide, esplora in gruppo la casa, e non succede niente di interessante. Il lettore si aspetta qualcosa…

COSA FARE:

  • Il gruppo si divide, ma non si vuole ricalcare il tropo appieno: possiamo mettere dei momenti di tensione irrisolta, come un rumore che spaventa uno dei personaggi, qualcosa che cade, una luce che si spegne… tutti tropi ovviamente, ma che ben si appaiano e completano la scena. Il gruppo si riunisce, non è successo niente ma il lettore è stato sulle spine
  • Il gruppo non si divide, esplora in gruppo la casa, trova qualcosa di potenzialmente mortale se si fossero divisi, e chi all’inizio si era appunto opposto alla divisione, può esclamare, “visto? Meno male che non ci siamo divisi”. Questo rafforza l’aver usato la negazione del tropo iniziale, generando un senso all’azione complessiva.

Insomma, l’importante è avere contezza di maneggiare una scena già vista magari in altre forme, quindi di usare qualche accortezza per non dissipare l’aspettativa del lettore e di usarla a proprio vantaggio.

Non è necessario fare i puristi e volere a tutti i costi evitare ogni singolo tropo, né ha senso scrivere solo scene tropizzate una dietro l’altra – creando di fatto un libro pieno di cliché. Ci vuole creatività per usare un tropo bene modificandolo in modo che non sia smaccato, dando a esso un senso e un contesto magari nuovo, giocandoci con profitto per massimizzare l’effetto scenico, e restando il più possibile originali.

Una buona storia è anche questo: dare al lettore ciò che si attende, ma anche qualcosa di inaspettato. Farlo crescere grazie alla propria storia, donargli visioni nuove e scene originali su cui fantasticare, ma anche intrattenerlo, cosa che coi tropi è più facile.

Conclusioni

Ho scritto numerosi libri e sono conscio di aver usato centinaia di tropi nei miei testi, sforzandomi sempre di trovare nuove chiavi di lettura e giocando con la negazione degli stessi qualora l’effetto fosse più interessante. Ad esempio, Mordraud è la storia di due fratelli separati da un dramma familiare causato dal padre violento, che arrivano a odiarsi a vicenda. Una serie di tropi da manuale!

Per finire, alcuni miei libri sono piuttosto lontani dal Monomito, come Vecchio Conio e Piano Rupe – quest’ultimo particolarmente.

Sialon 02, invece, è un puro viaggio dell’Eroe, alla mia maniera.

Mordraud è una saga molto lunga e ha diversi elementi monomitici, con certe svolte che negano il viaggio dell’Eroe tradizionale. Ma ha comunque tangenze evidenti con il Monomito: dopotutto, è un Fantasy.